martedì 30 aprile 2013

DIDAMATICA 2013

Programma :
martedì, 7 maggio
 
- partenza da Milano Centrale con treno intercity delle ore 8:10
- arrivo previsto a Pisa ore 12:43
- trasferimento presso l'Hotel Villa Primavera (stanza quadrupla)
- trasferimento presso la sede del convegno Didamatica, Area della Ricerca CNR
- ore, non si sa, cena in compagnia (wonderful)
- ore, non si sa, ma moooolto tardi, nanna!
 
mercoledì, 8 maggio
 
- colazione
- giretto super veloce per Pisa, forse!
- partenza da Pisa con treno intercity delle ore 11:44
- arrivo previsto a Milano Centrale ore 15:50
- partenza da Milano Centrale ore 16:20
- arrivo previsto stazione di Morbegno ore 18:01
- cena frugale :(
- dulcis in fundo: videoconferenza IUL ore 21:00
- nanna presto, perchè il giorno dopo mi attendono 8 ore e mezza, non stop, a scuola!
 

venerdì 19 aprile 2013

STRATEGIE DIDATTICHE ON LINE

Ecco il primo compito relativo al modulo 1, IUL "Tecnologie dell'istruzione e dell'apprendimento": realizza una mappa mentale con Mindomo riferita al capitolo 5 del libro "Didattica on line" di Andrea Garavaglia.


Make your own mind maps with Mindomo.

TRACKBACK

Ok, devo riuscire a risolvere questo problema: come mai non appare  questo famoso "flashback"?
Ho seguito la procedura indicata dal prof, ma non compare nulla! Mannaggia :(
L'ho anche scritto nel commento al post del prof PROPRIO QUI. Va beh, prima o poi risolveremo la questione!

martedì 16 aprile 2013

APPUNTI DI VIAGGIO ... #ltis13



Mi sono iscritta al cMOOC inizialmente sull’entusiasmo del per-corso linf12; sinceramente non ero così “scaldata”, ma poi le mie compagne, col loro entusiasmo, mi hanno tirata dentro:

- Flavia, non puoi mancare proprio tu!

Ok, allora facciamolo! Certo che gli impegni saranno molti:scuola, casa, università, figli, marito, cani, giardino, .... (non necessariamente in questo ordine!) 
 

     UN CMOOC SULLE TECNOLOGIE INTERNET PER LA SCUOLA

Che bello, posso modificare la mappa, posso aggiungere qualcosa su di me e vedere chi c’è con-me! Scrivo 4 commenti ( n° 4, n° 16, n° 23, n° 50)

 
     IL LUOGO E I SUOI ABITANTI

Comincio a capire che ci sarà un bel po’ da fare in questo villaggio un po’ anarchico, ma è quello che mi piace, in posti così escono le idee migliori. Mi stanca un po’ la lettura di tutti i commenti, sono effettivamente molti e crescono ad un ritmo impressionante; la mia irrequietezza è data dal fatto di non riuscire a seguire bene il filo del discorso, non ritrovarmi, .... ci sono cascata di nuovo, voglio avere tutto sotto controllo. Opto per un escamotage: mi segno i commenti più rilevanti e il numero dell’ultimo post letto. Mi sento meglio! Una cosa che mi piace fare è cliccare sui nomi dei miei concittadini,(permalink?) e vedere i loro blog, si scoprono molte cose, mi piace perchè è come se vedessi quella persona, non è più solo un nome...
Scrivo 2 commenti ( n° 35, n° 49)

 
     UNA DOMANDA, UN COMPITO E UN’ESPLORAZIONE

Imparo la differenza tra permalink e trackback, li ho incontrati spesso, ma non mi ero mai troppo soffermata sulla differenza! Ok, è già qualcosa che ho preso e messo nel mio granaio.
Devo scrivere un diario, oh my god! Non ho mai avuto un diario, neanche da ragazzina. Ancora adesso ho foglietti in giro dappertutto, ho post-it sul comodino, vicino al letto, sopra la cappa della cucina, in salotto accanto alla mia poltrona, ... io sono così, appunto le cose, ciò che mi viene in mente, qualche cosa letta, sentita, qualcosa che non devo assolutamente dimenticare. Anche col mio lavoro scolastico procedo così: ho un raccoglitore pieno zeppo di fogli volanti, che cerco di mettere in ordine, ma non lo faccio mai! E pensare che agli inizi della mia professione avevo un bel quaderno di programmazione tutto ordinato, colorato, con quello che dovevo dire e fare a scuola   ... roba passata! Ora io appunto, modifico lungo il percorso, colgo gli stimoli del momento, non vuol dire che improvviso, ma adotto una programmazione non rigida, aperta ad ogni possibile sviluppo. Merito dell’età e dell’esperienza.
Piratepad lo conosco già, ieri sera ha fatto molte bizze, come ho letto anche nei commenti. Decido allora di utilizzare Google drive, l’ho fatto pochissime volte, è un’occasione per riprenderlo, ottimo secondo me per questo momento e questa attività.

Scrivo 4 commenti (n°1, n°71, n° 120, n° 166).

Ah, dimenticavo di dire che ho fatto l’account in diingo e sono nella lista #ltis13 di twitter.

     COME SEGUIRE LE FONTI IN INTERNET

Leggo al volo il 4^ post del prof, questa è una cosa che so fare bene, uso bloglines da molto e mi trovo bene. L’ho adattato alle mie esigenze eliminando tutto ciò che di preconfezionato  fornisce il servizio nel momento dell’attivazione. L’ho scritto anche nel commento n° 31.
Devo essere proprio stanca! Ma per quale malefica idea vado a segnare i post letti se Bloglines lo fa per me? Vado a letto, è meglio!
 

     UN ESEMPIO DI SERENDIPITA’

Domenica mattina un twitt mi avvisa che il prof ha inserito un nuovo post, ma come ,non ne ha appena postato uno ieri? Cos’è tutta ‘sta foga?  Lo leggo dopo, ora vado a fare una bella passeggiata con i miei cani e poi tappa al bar per brioche e cappuccino, rito domenicale assolutamente irrinunciabile! Ok, mi piace il post e scrivo un nuovo commento, il n°14. Nel frattempo comincio a capire l’utilizzo di diingo e  mi intriga parecchio, come direbbe il prof!

 
     COME SEGUIRE LE FONTI IN INTERNET II

Dopo una mattinata a scuola riapro il PC, vado sul mio aggregatore e  mi ritrovo sommersa da una marea di nuovi commenti da leggere, circa 150! Wow, la vedo dura! Poi leggo il 5° post del prof: devo dire che la sosta sul prato è breve (vedi commento precedente); la lettura è interessante ma fatico a comprendere tutti i passaggi, devo tornarci su un po’ di volte. Qualche mia concittadina nei commenti ha chiesto informazioni su piratepad, volevo aiutare, ma sono stata preceduta. La collaborazione sta funzionando! Scrivo il commento n° 31. Ah su twitter arriva un cinguettio del prof : Care collaboratrici di #@linf12 il nostro Paper è stato accettato per Didamatica, 7-9 maggio, Pisa :)

 
     A COLORO CHE TEMONO DI PERDERE QUALCOSA
     OK, QUALCOSA SU PIRATEPAD
     LE VOCI DEGLI ULTIMI

Il prof si è dato un gran daffare , addirittura 3 post, ok li guardo con ordine e con calma. Il trailer del film mi emoziona molto e mi fa pensare anche molto. Scrivo un commento per ogni post, rispettivamente il n°18, il n°5 e il n°1. Ah, ho scoperto di conoscere un abitante del villaggio, oltre ai miei famigliari linf12, Costantino, ho frequentato il DOL con lui, era nella mia classe. Ci vediamo a Milano per la consegna dei diplomi?


     CHOCOLAT 3B PODCAST

Che bello ri-trovare questo podcast che ho molto navigato :)
Posto il commento n°36 perchè il 35 lo avevo fatto anonimo! Stanchezza cronica. Dopo aver letto alcune risposte scrivo ancora due commenti, il n°62 e il n°68.

 
     PER COLORO CHE VOGLIONO SALTARE IN CORSA

Commenti 6 e 7.

     NON SOLO LUCI

Ecco questo lungo post mi ha indisposta, non perchè non condivida il contenuto, ma perchè mi ha fatto sorgere parecchi dubbi sul  mio operato. Il commento n°20 è il mio e stavolta non mi son scordata il nome. Ma è una questione di cookie :) Il prof mi tranquillizza, ma una definizione di blog scolastico che trovo tra gli interventi non mi piace, la trovo molto riduttiva, così lo dico nel commento n°68.

 
     BACHECA

Leggo i commenti, scopro symbaloo, lo trovo accattivante, ma devo guardarlo meglio. Interessante il commento di Claude, devo rileggermelo con più calma per capire il meccanismo!

 
     APRIAMO IL BLOG

OK, ora iniziamo a conoscerci sul serio. Commento n° 29


     BLOGGANDO UN SALUTO MULTIMEDIALE

Commento 30


     LE CONCLUSIONI DI UN ARTICOLO SU #linf12 PER DIDAMATICA 2013

Non vedo l’ora di esserci!


     AUDIOPOST: DAL CAOS AL VILLAGGIO OPEROSO

L’ho ascoltato a tarda sera, non sarei riuscita a leggere un post così lungo, ma forse scrivendolo il prof avrebbe tagliato un bel po’. La soluzione è ottima, ma vale la pena di tenere in considerazione l’obiezione di Maria Grazia: non adatto ad un sordo.
Commento n°40

 
     DUE O TRE COSE SUI BLOG

Dopo un giorno di blackout totale (fisico e mentale) riaccendo il PC e leggo il nuovo post pubblicato ieri dal prof coi relativi commenti. Continuo a girare nelle case di alcuni concittadini. Non riesco a guardare i video postati, mi riprometto di farlo domani .... un altro giorno!

 
     CANTIERI

Come non detto, ho girovagato ancora per il villaggio attirata da un cinguettio azzurro e mi sono ritrovata in una casa dove ero attesa .... Ho guardato i video inseriti nel post precedente e ora mi appresto a vedere se il mio commento con il richiamo al post del prof viene captato dopo la modifica all'impostazione di blogger. Commento n°1



 

COMPITO TECNOLOGIA ( IUL)


Ecco come procede "cartomo", la versione matita e gomma di mindomo! Progresso o regressione? Boh!

venerdì 12 aprile 2013

Ancora su TPR

Total Physical Response (TPR) - PowerPoint


martedì 9 aprile 2013

Educare: un mestiere impossibile?

Tavola rotonda sull'argomento
Roberto Farné
I.
Il titolo della tavola rotonda pone a tutti una sfida. Riflettendo sul taglio da dare a questo intervento rispetto al titolo, partirei da una riflessione che Piero Bertolini, maestro di una generazione di pedagogisti, ci raccontava della sua esperienza decennale di direttore del carcere per minorenni Beccaria, dal 1958 al 1968; un’ esperienza di frontiera nel campo dell’educazione speciale. Bertolini ci diceva che di fronte ai ragazzi delinquenti lui ha sempre ritenuto che non venisse meno la loro personale responsabilità sulle decisione e sulle azioni da prendere.

«Non ho mai ignorato – diceva – che avessero problemi di famiglia, spesso di degrado sociale e culturale, di difficoltà economiche; ho sempre cercato di conoscere tutti questi problemi, ma non ho mai potuto ignorare che loro avevano comunque compiuto delle scelte rispetto a determinate azioni di cui si erano resi responsabili».
«Per me come pedagogista – diceva ancora – era indispensabile pensarla così: perché se non parto da questo principio non posso educare. Se penso che la colpa sia sempre e comunque da attribuire ad altri (società, famiglia, ambiente…), allora non posso educare: su cosa faccio leva? L’educazione si basa comunque sulla capacità del soggetto di compiere scelte responsabili in un contesto sociale, aumentando progressivamente il proprio grado di autonomia».
Come educatore, si deve poter fare leva sull’assunzione di responsabilità e di scelta: un soggetto ha fatto certe scelte, ma può anche farne altre. È questa possibilità che consente di mettere in atto relazioni ed esperienze concrete, che mettono questi soggetti di fronte alla possibilità di capire che possono anche fare scelte diverse da quelle che hanno fatto. A me questa testimonianza è sempre sembrata straordinaria, perché segnala il fatto che ciò che conta sono i campi di esperienza, le possibilità, le opportunità che i ragazzi hanno.
Potremmo usare un altro termine: le condizioni. Generalmente diamo ai termini “condizione” e “condizionamento” una connotazione negativa: insomma, non è una bella parola, evoca soggezione e inibizione delle proprie libertà. Eppure sono convinto che l’educazione avvenga sempre attraverso processi di “condizionamento”, ma dobbiamo assumere il termine in senso positivo, cioè come processo del creare buone condizioni per le esperienze del soggetto.
Il problema è che siamo noi adulti a creare o non creare determinate condizioni, oppure a lasciare che siano “gli altri” a determinarle, sulla base di interessi che non sempre sono pedagogicamente corretti. Creare le condizioni significa anche rischiare di sbagliare e assumersi delle responsabilità quando questo avviene. L’alternativa, però, è limitarsi a non agire, senza prendersi la responsabilità in un rapporto come quello educativo, che resta comunque asimmetrico e aperto al conflitto che è una dimensione fisiologica della relazione educativa. Creare delle “condizioni” significa gestire le realtà dei conflitti educativi, non ignorarle o reprimerle, significa accoglierle e affrontarle responsabilmente da parte di chi ha ruoli educativi.
La parola responsabilità può essere letta come il peso della cosa, come il res-pondus. Ecco: essere responsabili significa sentire il peso di una cosa, un peso che, ovviamente, deve essere adeguato alla persona a cui si chiede di portarlo; anche un bambino di scuola dell’infanzia può essere educato ad assumersi le proprie responsabilità, nella vita quotidiana, in famiglia. La pedagogia della Montessori è molto attuale su un tema come questo. Educare alla responsabilità significa aiutare il bambino a fare dei percorsi dove è necessario portare un bagaglio adeguato e arrivare alla meta. Quando vedo i genitori che portano lo zaino scolastico al posto del bambino, lo leggo metaforicamente come il segno di un atteggiamento educativo orientato a togliere dei pesi, più che ad insegnare gradualmente a portarli (e a volte persino a sopportarli…).
Il significato della parola responsabilità lo troviamo anche nel respondere, cioè nel dare risposte a qualcuno rispetto a ciò che si sta facendo o si è fatto. Quando diciamo a un bambino o a un ragazzo che ha compiuto un’azione riprovevole: “sei un irresponsabile…!”, gli diciamo sia che non ha sentito il peso della cosa/azione in sé, ma anche del fatto di non doverne rispondere ad altri rispetto alle conseguenze. Tradizionalmente, sia affidavano ai bambini dei piccoli compiti nella vita famigliare: andare a fare la speda, aiutare nelle faccende domestiche, e a scuola si danno i compiti che devono essere eseguiti e consegnati. Tutte azioni che richiedono al soggetto di “rispondere” a qualcuno di determinate azioni che deve compiere. E’ buon senso educativo non chiedere a un bambino di 5 anni ciò che si può chiedere a uno di 10, ma spesso ci troviamo di fronte alla diffusa irresponsabilità educativa di chi tende piuttosto a de-responsabilizzare, dove c’è sempre qualcul altro che fa al tuo posto o qualcuno che giustifica ciò che non hai fatto ma di cui dovevi rispondere.
II.
C’è un fantasma che si aggira per la scuola: la depressione. La noto tutte le volte che faccio incontri con gli insegnanti. Gli esempi sono palpabili e no sono risolvibili fornendo “supporto psicologico” agli insegnanti. Durante i miei corsi rivolti a chi si prepara a fare l’insegnante o l’educatore, dico che ognuno è libero di avere la propria visione del mondo, ma se uno tende ad una visione pessimista o depressiva, è meglio che scelga un altro mestiere.
Ciò non significa che un educatore debba vedere il mondo in maniera superficialmente ottimistica, ma il suo ruolo è di prospettare visioni sul futuro. La depressione che io vedo spesso nella scuola e negli insegnanti è legata proprio a un’incapacità o difficoltà a vedersi promotori di valori e di cultura che incideranno sul futuro dei soggetti. Come dire, in sostanza: “tanto noi non contiamo nulla”. Questo atteggiamento diventa remissivo e pericolosamente contagioso.
Certo, gli insegnanti sono anche trattati male, ma dobbiamo chiederci come viene selezionata una classe insegnante in un Paese: come ha selezionato la classe insegnante il nostro Paese negli ultimi trent’anni? Ritengo che “il corpo insegnante” (un’espressione con un significato piuttosto forte) sia uno dei centri nevralgici per un Paese, che richiederebbe di essere alimentata non dalle forme del precariato, ma da rigorosissimi percorsi formativi e selettivi. Le professioni si riconoscono, sul piano dell’accreditamento sociale, anche da come chi le esercita viene selezionato: questo aspetto, anziché essere oggetto della massima cura per quanto riguarda gli insegnanti, è stato per troppi anni legato a logiche politico-sindacali di cui qualcuno dovrebbe essere chiamato, prima o poi, a “rispondere”.
Quando un genitore deve iscrivere il proprio figlio o figlia ad una scuola, inizia un passaparola, un giro di richieste di informazioni a proposito dell’insegnante bravo, della scuola migliore... I genitori chiedono insegnanti bravi e competenti e di conseguenza i meccanismi del passaparola diventano “criteri di valutazione” impliciti.
Ne consegue che gli insegnanti sono, volenti o nolenti, al centro di meccanismi di giudizio e di valutazione dai quali però sono totalmente espropriati. Ma gli insegnanti sono stati finora molto refrattari ad essere valutati nella loro professionalità. Perché? Una professione è riconosciuta anche sulla base di processi di valutazione socialmente condivisi. Il concetto di garantismo non si accorda col concetto di qualità della professione. Finora un malinteso garantismo ed egualitarismo è ciò che ha negato che venissero introdotti criteri di seria e rigorosa valutazione della professione insegnante, che in altri Paesi ci sono. Il risultato è che sono tutti uguali (ma nella realtà non è vero) pagati poco a condizione di chiedere poco. Come si devono sentire quegli insegnanti, e non sono pochi, che alla scuola danno molto in termini di impegno didattico, aggiornamento, disponibilità all’innovazione…?
La qualità di una scuola la rilevo anche dal “senso di appartenenza”; Il concetto di “corpo insegnante” mi fa pensare che ci sia un gruppo di insegnanti che sente una determinata scuola come qualcosa che gli appartiene, che gli stia a cuore nei suoi spazi, nelle cose che ha. Una scuola che sia anche accogliente come deve esserlo una casa comune, nella quale si trascorre molto del proprio tempo. Non è un discorso astratto o banalmente retorico, ma il punto è che se chi vive direttamente la scuola non la sente “propria”, non sarà nemmeno in grado di trasmettere questo sentimento ai propri allievi; e poiché la scuola è un’istituzione pubblica, il messaggio alla fine è che tutto ciò che è pubblico non è mio e quindi non ne sono responsabile. Gli esempi non mancano.
Simona Argentieri
 
I.
Il titolo della nostra tavola rotonda – “Educare: un mestiere impossibile?si ispira ad un noto aforisma di Sigmund Freud, proveniente da un suo scritto degli anni della maturità, tardo e pessimista. Egli diceva infatti, con la consueta ironia, che esistono tre mestieri impossibili: educare, governare e psicoanalizzare. Psicoanalizzare può non essere obbligatorio, ma educare e governare sì, anche se purtroppo, nella maggior parte dei casi, lo facciamo male.
Evidentemente, Sigmund non intendeva rassegnarsi alla rinuncia, ma formulava un paradosso per metterci in guardia dalle illusioni onnipotenti di chi pretende di plasmare gli altri. Proviamo allora a vedere cosa possiamo trarre oggi da tale paradossale impostazione del problema educativo.
Propongo di cominciare la nostra riflessione dal titolo generale del Convegno: “Il bambino selvaggio”. Un bambino dunque da “educare” e “civilizzare”?
Nella psicoanalisi ci sono due accezioni dell’aggettivo “selvaggio”. La prima è quella degli psicoanalisti cosiddetti “selvaggi”, che usano l’interpretazione dell’inconscio altrui come una sorta di arma impropria, senza aver fatto uno specifico training formativo; per aggredire e umiliare il paziente anziché per accoglierlo, contenerlo e comprenderlo. Insomma, sono coloro che pretendono di curare gli altri prima di aver curato le proprie debolezze e motivazioni profonde.
Ecco dunque già una prima indicazione, una inversione di obbiettivo per chi pretende di educare senza prima aver educato se stesso.
La seconda accezione che possiamo derivare dalla storia della psicoanalisi è quella che accomuna il bambino, il selvaggio e il folle. A quel tempo primitivo equivaleva a selvaggio (non c’era ancora l’ossessione del politically correct), ma in una valutazione tutt’altro che negativa, poiché la forza e la vitalità emanano proprio da tali livelli arcaici. L’idea era che ogni bambino ripercorresse nelle tappe dello sviluppo tutte le epoche della storia, dall’antichità fino alla cosiddetta civiltà: l’ontogenesi come ricapitolazione della filogenesi. Il problema però si complica, perché questi livelli “selvaggi” permangono in ciascuno di noi per tutta la vita; così come è sempre sfumato il confine tra normalità e malattia. In particolare, il bambino della psicoanalisi è un “piccolo perverso polimorfo”, dominato da passioni potenti e incontrollate; non è più il bambino angelicato della ipocrita tradizione borghese. Per di più, dice ancora Freud, l’adulto civilizzato è infelice. L’educazione ci obbliga a duri sacrifici pulsionali, dobbiamo rinunciare ad appagare i nostri impulsi sessuali e aggressivi in cambio di un po’ di sicurezza.
Secondo questa concezione, sembra che non ci sia scampo, perché il beneficio dell’educazione è tutt’altro che scontato.
Si ripropone, sotto nuova forma, il tema del rapporto tra natura e cultura: nasciamo buoni e veniamo corrotti oppure nasciamo cattivi e veniamo addomesticati? Così invocare la natura può diventare un alibi per la latitanza educativa; mentre il riferimento alla cultura può diventare invece un grande ricettacolo di ideologie.
La soluzione riposa sul buon senso: lo scopo di ogni pedagogia dovrebbe essere attivare il negoziato tra i propri impulsi e il rispetto degli altri, una norma semplice e faticosa che si impara dall’educazione e che -se è una buona educazione, professata con onestà e coerenza da adulti che ne osservano i precetti prima di imporli, diviene progressivamente patrimonio interiore anche degli allievi. Quali che siano le tendenze “naturali”, genetiche, biologiche di ciascuno, c’è sempre un margine di possibile mediazione e trasformazione nel contesto ambientale e relazionale. La lezione di civiltà alla lunga non è solo sacrificio, perché consente di barattare il “principio del piacere” della gratificazione immediata della pulsione con il beneficio della reciproca fiducia nella convivenza sul piano della realtà..
Ad onta del pessimismo del Maestro, l’educazione è infatti un punto su cui la psicoanalisi si esercita fin dalle origini, soprattutto per merito delle prime donne psicoanaliste. Anna Freud e Melanie Klein, Tatiana Rosenthal e Sabina Spielrein, e poi Margareth Mahler... si occupano non solo di bambini afflitti da patologie, ma anche dei bambini normali negli asili e nelle scuole.
Certo è un processo tortuoso, che procede per tentativi ed errori. Così, nel corso degli anni, abbiamo assistito a delle radicali inversioni di tendenza. Dapprima, agli inizi del ventesimo secolo, la psicoanalisi ha messo in luce quanto l’eccesso di autorità, la repressione degli impulsi del bambino, dei suoi bisogni e desideri, producesse nevrosi. Ma poi, nel giro di due generazioni, un malinteso senso di riscatto ha prodotto un altro errore opposto: quello dell’indulgenza plenaria; per cui da bambini repressi e inibiti siamo arrivati ad avere bambini insicuri, incapaci di esercitare il controllo dei loro impulsi.
L’attuale equivoco educativo non deriva solo dalla teoria e dalla buona fede; c’è anche una collusione con una generale tendenza alla latitanza educativa e all’incapacità di introdurre un saldo principio di autorità nell’allevamento. Ricordo che negli anni ottanta, proprio qui a Castiglioncello, ho tenuto una relazione intitolata Elogio del Super-io, ottenendo un certo consenso. Ma quei giovani dal superio fragile dei quali ci occupavamo allora sono diventati genitori e hanno trasmesso difetti educativi che sono diventati il “normale” problema dei nostri tempi. Paradossalmente, un superio crudele e severo può derivare da una educazione eccessivamente indulgente, che ha lasciato a suo tempo il bambino in preda dei suoi istinti primitivi senza controllo esterno.
Eppure, tutti oramai proclamano – invano – che occorre fermezza e autorevolezza. Come dico nel mio ultimo libro, L’ambiguità (Einaudi, Torino 2008), sembra che dal conflitto siamo regrediti all’ambiguità, che è un modo subdolo di eludere i problemi senza sentirsi in colpa.
Il contributo della psicoanalisi non è tanto in ordine ai contenuti – variabili e arbitrari – del processo educativo; la sua utilità è piuttosto connessa a una teoria che ha in sé gli strumenti per analizzare i suoi stessi errori; che impone di indagare i problemi degli educatori, prima di quelli degli educandi. Sappiamo che spesso ci sono delle ideologie sottostanti, delle fantasie neanche tanto inconsce di genitori e insegnanti nei confronti dei ragazzi affidati alle loro cure, che possono entrano in contrasto tra di loro. Ad esempio, il padre o la madre possono temere di essere derubati dagli insegnati della loro funzione di guida e autorità nei confronti dei figli; hanno la fantasia di essere colpevolizzati o svalutati e-in ragione di tali sotterranee rivalità- rischiano di colludere con le parti ribelli dei giovani. Per contro, la fantasia segreta dell’insegnante-educatore-psicologo può essere quella di esercitare una riparazione magica e onnipotente dei danni familiari subiti dai giovani affidati alle loro competenze.
Purtroppo, c’è sempre il rischio che usiamo i bambini per i nostri privati bisogni narcisistici di autostima e di auto-affermazione.
In conclusione, credo che le difficoltà insite nel mestiere “impossibile” di educare non debbano essere un pretesto per sottrarci alla fatica dell’impegno.
II.
Ancora una considerazione. L’educazione non consiste nell’acquisizione intellettuale di nozioni, ma in un sofisticato processo di integrazione tra funzioni e livelli. Oggi abbiamo conferme empiriche da parte delle neuroscienze circa l’importanza delle emozioni nei i processi di apprendimento. Se ricordate, Victor -il piccolo protagonista del film di Truffaut L’enfant sauvage che ha offerto il titolo al nostro Congresso, tratto dalla storia vera del piccolo selvaggio cresciuto tra gli animali della foresta- ha imparato a dire la parola lait e a comporla con le lettere non per gli imperativi intellettuali del professor Itard, ma perché c’era dietro Madame Guérin, con le sue cure e la sua attenzione affettuosa.
Non sto dicendo che l’amore è la soluzione dei problemi, anzi so bene che – come dice D. W. Winnicott – che non c’è modo peggiore di maltrattare un bambino che con un eccesso di benevolenza: dico piuttosto che la scissione tra intelletto ed affetti è una strategia perdente su entrambi i piani.
Per non sottolineare solo le cose negative, mi piace notare che ai nostri giorni si sta verificando una inversione di senso dell’insegnamento: non è raro che siano i giovani ad insegnare agli adulti, i bambini ad aiutare i genitori e i nonni a capire le lingue straniere, le tecnologie. Così come è frequente il passaggio orizzontale del sapere tra pari, tra ragazzi. E’ un fenomeno abbastanza nuovo, interessante e sostanzialmente positivo; purché non diventi un’ulteriore deriva per la latitanza educativa dei “grandi”.
Il problema, dunque, a parer mio, non è che i ragazzi “selvaggi” di oggi siano più cattivi di quelli del passato; la differenza semmai è che non hanno strutturato una capacità di controllo degli impulsi, una integrazione di senso tra pensiero, emozione e azione. La violenza che vediamo è spesso fredda, anaffettiva, senza passioni.
In questo senso continuo a pensare alle tante aree di ambiguità della nostra cultura: modalità di comportamento prive di “educazione” nel senso più ampio del termine, che sono al tempo stesso piccoli crimini e piccole nevrosi. Per esempio, i cosiddetti “pirati della strada”, che investono e fuggono, atteggiamento disumano e vile, ma ormai così frequente da essere diventato un fatto banale; oppure il mancato rispetto delle regole ambientali o fiscali... Una delle persone del pubblico poco fa protestava giustamente perché non siamo stati puntuali. In effetti, si vanno perdendo grandi e piccole norme del vivere civile, sgretolando l’etica del comportamento e delle relazioni.
Infine quando la parola “selvaggio” viene usata come insulto, ci ritroviamo alle radici del pregiudizio. I pregiudizi, i preconcetti sono un esempio delle cosiddette virus-like ideas, opinioni false e difensive, che nel corso del tempo e della storia cambiano di forma, ma rimangono vive e maleficamente attive, proprio come i virus. Così possiamo continuare a proiettare negli altri, estranei o stranieri, le nostre parti scisse e denegate.
Sono d’accordo con chi ha invocato il concetto di responsabilità, che deriva dal verbo respondeo, e indica il “rispondere di ciò che si fa”. Non puoi trasmettere agli altri ciò che non hai.
Purtroppo, la tendenza attuale della nostra cultura è invece quella disimpegnata e seduttiva di andare incontro non ai bisogni, ma alle difese.
Francesco Paolo Occhiogrosso
 
I.
1. Nell’odierno contesto sociale dominato dal problema della sicurezza e dell’esigenza di dare risposte “esemplari” (che sostanzialmente si identificano nel carcere anche per i minorenni) a chi commette reati, è molto facile fermarsi alla superficie delle vicende, all’episodio-reato ed evitare ogni approfondimento, ogni impegno per passare dal fatto-reato alla persona (minore) che lo ha commesso, per cercare di comprendere quale sia oggi il volto dell’infanzia o dell’adolescenza difficile, di intendere, in sintesi, chi sia il bambino selvaggio, a cui ci riferiamo. Ed è questo invece un passaggio essenziale per orientarci nel discorso da svolgere e nei percorsi da compiere.
Perciò partirò dalla mia esperienza giudiziaria di presidente di un tribunale per i minorenni per compiere una duplice analisi. La prima riguarda la risposta al quesito di chi sia oggi il bambino selvaggio; la seconda tende a verificare quale sia oggi l’immagine dell’infanzia deviante considerata nella sua globalità.
2. Chiarisco subito che per bambino selvaggio intendo quello (di cui ho maggiore esperienza) che ha commesso reati e che comunque si trova in carcere. Basta fare brevi cenni alla storia di qualcuno di questi ragazzi per rendersi conto che essi hanno avuto ben poco dalla vita e che la loro condotta deviante è il frutto del fatto che è mancata loro ogni cura ed ogni protezione. Ricordo tra questi ragazzi quello che, detenuto in un istituto penale minorile, è stato vittima di un brutto episodio di violenza sessuale da parte di un gruppo di altri ragazzi detenuti. Approfondendo la sua storia, abbiamo appreso che non era la prima volta che questo ragazzo era stato abusato; che era un vero e proprio “prostituto” e si vendeva per pochissimo, ad esempio anche solo per avere un piccolo regalo. Era il bisogno di affetto (di un affetto ovviamente distorto) che lo aveva portato a questa terribile condizione.
Altra storia è quella di un ragazzo di appena 16 anni che già porta sul viso i segni tangibili del suo degrado. E’ ormai del tutto sdentato e dice che quello è l’effetto della cocaina che ha cominciato ad assumere sin da bambino.
Un’altra esperienza è quella di un ragazzo che di punto in bianco ha ricevuto in carcere una lettera dalla madre, la quale gli ha comunicato di aver trovato un nuovo compagno e di aver dato al suo convivente il letto che era stato del ragazzo. Un modo brutale di dire al figlio già tanto sfortunato che a casa non c’è più posto per lui e che quando uscirà dal carcere, egli dovrà arrangiarsi da solo.
Leggendo queste storie si è presi dallo sconforto, da una profonda tristezza, che deriva dal rendersi conto che la condizione di “bambino selvaggio” di questi e di tanti altri ragazzi con vissuti analoghi è la causa, non la conseguenza della loro condanna penale; che la loro solitudine e la loro carenza affettiva lasciano pochi dubbi sul fatto che si tratta di minori che non hanno raggiunto un livello adeguato di maturità tale da poter pervenire ad un’affermazione di penale responsabilità.
Andrebbero aiutati, meriterebbero interventi di recupero, che diano loro qualche cura che non hanno avuto da bambini ed invece sono considerati quasi sempre capaci d’intendere e di volere e condannati.
Occorre riflettere attentamente su questa realtà; occorre che il giudice minorile e gli operatori giudiziari siano specializzati ed aggiornati per poter usufruire in modo idoneo di quegli strumenti che pure la legge prevede (come, ad esempio, la messa alla prova), che offrano anche ai “bambini selvaggi” occasioni di vita migliore di quelle che finora sono state loro offerte.
3. Passando ora ad esaminare la condizione attuale dell’infanzia e dell’adolescenza deviante considerata nella sua globalità, parto anche in questo caso da una storia, quella notissima della partita di calcio Catania-Palermo di tre anni fa, a seguito della quale per gli scontri con la tifoseria è deceduto l’ispettore di polizia Raciti e sono stati feriti cento spettatori. In quella circostanza ben nove degli arrestati erano minorenni: anche l’imputato per l’omicidio dell’ispettore era un minorenne e suo padre si è precipitato a difenderlo, senza però spiegare perché suo figlio fosse finito lì e che cosa avesse fatto lui, come padre, per evitare tutto questo.
Ma ciò che di Catania ha colpito in modo particolare è un dato ulteriore: accanto a quell’episodio abbiamo avuto notizia della diffusione, su vari passaggi su Internet, di una serie di documenti e messaggi siglati ACAB (da tradurre “Tutti i poliziotti sono bastardi”), che è partito da Catania ma si è esteso in tutta Italia. La settimana successiva, all’inizio della partita Roma-Parma, il minuto di silenzio per Raciti è stato fischiato dagli ultras. Questo fa capire che il fenomeno non è isolato; che vi è un brodo di coltura in cui questa realtà si va estendendo. Non vi è solo il gruppo dei devianti, ma una vasta area di giovani che rientra nell’area di un’illegalità diffusa; che è costituita da fiancheggiatori o aderenti allo stesso modo di vivere. Ciò vale per gli ultras, ma un discorso analogo si potrà fare per altre forme di devianza, alle quali si deve ora fare riferimento, individuando alcuni punti qualificanti relativi ai cambiamenti intervenuti nel modo di articolarsi della devianza, considerata nella sua globalità. Esaminiamo brevemente questi punti, che possono essere così individuati.
3.a.) La frammentazione dei modelli.
Il disagio minorile si caratterizza per la sempre maggiore complessità delle sue manifestazioni. All’unico monolitico modello precedente, costituito dalla devianza tradizionale, quella dei minori vissuti in istituti o comunità o nei quartieri degradati di periferia, con famiglie disgregate ed incapaci di educare, dei ragazzi di borgata, insomma, si è andata sostituendo una pluralità di modelli, cosa che induce a parlare non più di “devianza” al singolare, ma di “devianze” al plurale, atteso che ciascun modello si va caratterizzando in modo distinto dagli altri.
3.b) Le nuove tipologie e l’ingresso nella devianza dei figli del ceto medio.
Nell’ultimo decennio alla devianza di tipo tradizionale si sono venute aggiungendo cinque nuove tipologie di devianza: quella dei ragazzi della mafia e quella dei ragazzi stranieri da un lato; e poi il cd. malessere del benessere, il bullismo (nelle più recenti manifestazioni che fanno parlare di “nuovo bullismo”) e la devianza degli ultras e naziskin, dall’altro.
Questa ampia articolazione può essere sintetizzata sottolineando che sono agevolmente individuabili due filoni della devianza attuale: uno di carattere sociopatico, entro il quale possono ritenersi riuniti i primi tre modelli suindicati, e cioè la devianza tradizionale, quella di tipo mafioso e quella straniera, le cui comuni peculiarità sono costituite: b1) dalla provenienza sociale umile e marginale; b2) dal tendere a realizzare un vantaggio economico diretto o indiretto; b3) dall’influenza della famiglia o del quartiere; b4) dalla maggiore presenza in aree metropolitane; b5) dall’essere prettamente maschile.
L’altro filone non è frutto di sollecitazioni da parte di adulti, ma è anzi talora un’esplosione contro la famiglia; non ha motivazioni economiche; proviene da ragazzi con una precedente condotta irreprensibile e comunque incensurati e che non hanno fatto una scelta di vita in senso deviante; ha una diffusione tendenzialmente maggiore nei piccoli centri; ha una rilevante presenza femminile. Queste caratteristiche distinguono soprattutto il malessere del benessere; ma anche il bullismo e la devianza degli ultras possono esservi avvicinate per le notevoli affinità che presentano. Queste tre devianze possono essere catalogate nel filone della devianza derivante da personalità caratterizzate da disturbi di tipo psicopatico.
Ed è in questa seconda area che sempre più decisamente stanno facendo il loro ingresso i figli del ceto medio: un ingresso di tutta evidenza per il malessere del benessere e per il bullismo, ma che si è evidenziato anche per gli ultras: a Catania, in occasione dei famigerati fatti seguiti alla partita Catania-Palermo, sono stati fermati figli di medici e di altri professionisti e persino il figlio di un poliziotto.
3.c.) Il nuovo atteggiamento della famiglia.
La tradizionale devianza minorile era caratterizzata da singoli episodi di irregolarità comportamentale e per lo più da reati che restavano fatti isolati e non erano sostenuti da alcun supporto pseudo-culturale. Essa inoltre era contrastata non solo dalle istituzioni sociali, ma anche dalla famiglia del ragazzo, che aveva un atteggiamento decisamente critico nei suoi riguardi.
Tutto ciò è decisamente cambiato negli ultimi anni. La famiglia si schiera sempre più a favore del figlio difficile e contro la scuola.
3.d.) La subcultura che accompagna questa devianza.
Oltre a ciò, vi è da rilevare che la più recente devianza è spesso accompagnata da un supporto pseudo culturale, da una motivazione sia pure distorta, ma comune a molti giovani, che rende il fatto criminoso non più fatto episodico ed isolato, ma una condotta rientrante in un’area ampiamente condivisa, in un brodo di coltura, nel quale si ritrova una vasta area di soggetti uniti da questo identico sentire.
La prima devianza che ha presentato questa peculiarità è stata quella dei ragazzi della mafia, nella quale il coinvolgimento dei ragazzi come manovalenza di gravi crimini è stato accompagnato dalla trasmissione non solo ai piccoli mafiosi, ma anche ad un più vasto ambito di ragazzi che condividono la subcultura della mafiosità, la quale afferma la cieca fedeltà degli appartenenti al clan al loro capo; l’omertà come regola generale di condotta; la prevaricazione sul più debole ed il sostegno al più forte.
Anche il bullismo, nelle più recenti manifestazioni, si sviluppa non per episodi illeciti isolati, ma in un contesto che lo precede e lo segue, ampliandone a dismisura la portata, grazie ad un elemento nuovo costituito da una sorta di autocompiacimento collettivo per queste azioni, che porta gli autori a voler manifestare all’esterno non solo il filmato relativo agli illeciti compiuti, ma anche il fatto di esserne stati protagonisti. E quindi a riprendere gli episodi incriminati, conservarli per mesi nel proprio videofonino, diffonderli poi ad una vasta platea di altri giovani che condividono la loro cultura sono divenuti un sistema che tende ad affermare prevaricazione e violenza sui più deboli, che sono vissuti come valori e non più come episodi balordi, di cui pentirsi subito dopo.
Il discorso vale anche per la devianza degli ultras, del cui atteggiamento sub-culturale è già detto all’inizio. Vale anche per il malessere del benessere, nel quale le condotte illecite sono spesso caratterizzate dall’assenza di ogni coerenza logica tra causa ed evento; da condotte tanto violente ed efferate quanto prive di motivazione. Esse tuttavia, se esaminate in modo globale (considerando insieme il disagio che si manifesta con la partecipazione a riti satanici, quello connesso alle morti del sabato sera, quello di cui sono espressione il sempre più ampio uso di stupefacenti, ed anche la bulimia e l’anoressia), risultano essere sempre meno episodiche ed isolate e sempre più espressione di un nuovo, diffuso malessere giovanile.
3.e.) Il nuovo volto della devianza.
Riassumendo, quindi, il discorso svolto, si può sinteticamente affermare che la devianza minorile nel giro di qualche anno ha cambiato volto ed è divenuta molto più complessa e difficile che in passato. E perciò è anche più difficile e complesso reperire risposte adeguate.
4. Che cosa occorre fare per invertire l’orientamento negativo emergente? Le risposte devono essere più di una e devono riguardare la famiglia, la scuola e i mass media. Accenniamo a ciascuna di queste possibili risposte.
4.a.) La famiglia.
Considerando nella prospettiva detta il rapporto famiglia-adolescente, è agevole infatti rilevare che difficilmente la famiglia assolve al ruolo suindicato. Si parla molto, a questo proposito, della scomparsa del padre, nel senso non solo della crisi della famiglia, dell’aumento vertiginoso di separazioni e divorzi con affidamento dei figli alle madri (malgrado l’affidamento condiviso), ma forse ancora di più nel diverso senso che, in un’epoca di accentuata denatalità, il figlio è divenuto un “bene” familiare da proteggere da tutti e contro tutti, da difendere sempre, quale che sia stata la sua condotta. Con la conseguenza che il genitore non sa dire più al figlio adolescente i “no” necessari. È noto, al contrario, che la domanda principale che gli adolescenti rivolgono agli adulti è quella di porre loro delle regole, dei limiti; di saper pronunciare i “no” che aiutano a crescere. Quello che oggi manca a vari livelli è appunto la capacità di dire no, un “no” empatico, motivato, ma assolutamente fermo.
Un problema importante è appunto questo: come restituire alla famiglia il ruolo che le compete in rapporto al figlio adolescente. Si parla da tempo di scuola per genitori, ma non se ne è mai fatto nulla. Eppure entrare nella logica che quello di genitore è un mestiere da apprendere, non un ruolo innato, che si acquisisce automaticamente con la nascita del figlio, dovrebbe diventare un programma irrinunciabile al quale il nostro legislatore dovrebbe pensare.
4.b.) La scuola ed i servizi sociali.
In occasione dei recenti fatti di bullismo già descritti, il ruolo dei videofonini non è stato solo quello già accennato di permettere al bullo di conservare la memoria della violenza perpetrata per continuare a compiacersene anche in tempi successivi e di ampliare l’”audience” di coloro che condividono tale subcultura, realizzando, tramite Internet, una platea virtuale molto vasta.
Il videofonino ha svolto, sia pure involontariamente, un ruolo positivo, quello di offrire all’opinione pubblica uno spaccato della nostra scuola, o almeno di una parte di essa. Abbiamo visto filmati che riprendono insegnanti imbelli, che si fanno sbeffeggiare dagli studenti senza replica alcuna; professoresse che si fanno “toccare”; classi abbandonate a se stesse dal docente per un tempo prolungato. E poi un numero rilevante di furti (soprattutto di telefonini) a danno degli alunni. C’è da chiedersi se “questa” scuola sia in grado di rispondere al compito importante che dovrebbe svolgere. Pur senza operate generalizzazioni, va detto che emerge un quadro sconfortante, un quadro che evidenzia l’incapacità della scuola ad essere punto di riferimento per gli adolescenti al fine di educarli al rispetto delle regole del vivere civile e per la riaffermazione dei principi di legalità, che non possono essere vissuti concretamente. Fare in modo che la scuola sappia rimotivare i suoi docenti e sappia sceglierli, non solo perché capaci di somministrare un’istruzione libresca, ma per la loro autorevolezza, è a questo punto essenziale.
4.c.) I mass media ed il mito della facilità del successo.
È difficile tuttavia che i genitori imparino a dire i “no” salutari e che i docenti acquistino la capacità di guidare le dinamiche interpersonali del gruppo classe, di insegnare il limite e la fatica, in un’epoca segnata dal mito della facilità e del successo a buon mercato. È difficile, perché una cosa è una società, che complessivamente converga nel voler conseguire certi risultati, e cosa diversa è una società, in cui coesistono ottiche differenti e talora diseducative. Abbiamo, invece, da un lato una scuola che, sia pure con i limiti detti, tende ad educare allo studio, all’impegno ed al sacrificio come valori su cui fondare il futuro per i giovani e dall’altro i mass media che, con i vari reality show ed i miti dei calciatori e delle veline, spiegano tutto il contrario, insegnando che il successo si può conquistare senza alcun sacrificio ed impegno.
È necessario invece che tutta la società, tutte le professioni siano coinvolte in un ripensamento etico generale: quale deve essere la deontologia professionale del giornalista, dell’avvocato, del docente? Insomma, occorre porsi la domanda se quello del rapporto con le nuove generazioni debba essere un problema di soli genitori o piuttosto della comunità intera.
E per quanto riguarda in particolare il ruolo dei media, sarebbe importante una televisione a misura dei ragazzi, che eviti gli spettacoli diseducativi, come quelle trasmissioni che – in contrasto con la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, che prevedono il principio della riservatezza su tutte le questioni che attengono ai minori – violano le più elementari regole della privacy; pubblicano le foto dei bambini vittime di atroci delitti senza alcuna copertura; ignorano quelle regole sulle fasce protette per i minori che altri Paesi rispettano.
5. Ma i cambiamenti sono possibili. In conclusione, cambiare si può, ma a condizione di realizzare alcune importanti riforme che devono andare dall’introduzione della “scuola per genitori” ad un programma che consenta alla scuola di recuperare in autorevolezza, ai servizi sociali di essere adeguati sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo ed a porsi in gradi di saper “catturare” il consenso dei diffidenti.
Ma il discorso deve andare oltre, sì da favorire un ripensamento etico generale, come già si è detto, facendo ricorso a strumenti più efficaci di quelli finora utilizzati. Ripensare, ad esempio, le regole della gestione delle televisioni e, nell’ambito di una tale prospettiva, realizzare almeno il progetto di una rete RAI senza pubblicità, una rete che, senza essere troppo seriosa, sappia avere una impostazione culturale non ispirata alle logiche dell’audience, sarebbe un bel risultato.
È quindi necessario che la politica si mobiliti in un programma non emergenziale, ma di lunga prospettiva e si interroghi sulla sua reale disponibilità a correggere l’attuale modello di vita della nostra società per dare più spazio al diritto dei minori ad un corretto sviluppo della loro personalità.
Altrimenti, bisognerà convenire che l’accentuarsi del disagio minorile ed il grave danno che i ragazzi ricevono dall’attuale stato di cose sono il prezzo inevitabile che la nostra comunità sceglie, pur di non rinunciare a questo modello di vita, di cui a parole si dice molto male, ma che forse invece fa comodo ai più.
 
Riccardo Sanna
 
I.
Per parlare dei problemi di questa generazione che cresce, vorrei illustrarvi i dati di una ricerca della CGIL sui giovani al lavoro. Si parla, a proposito dei giovani, delle loro ansie e della percezione del futuro, ma una premessa sullo scenario di fondo va fatta. La ricerca di un lavoro in Italia ha come canale principale gli amici e i parenti. Una recente ricerca ci dice come attorno al 2015 la domanda di lavoro cambierà, con una crescente richiesta di professioni più specializzate, sia tecniche che ad alto livello culturale. Naturalmente sappiamo tutti che in Italia c’è un gap rispetto ad altri Paesi, sia in termini di diplomati sia per la percentuale di laureati.
Quando parliamo di responsabilità dobbiamo anche parlare di merito: per dare indicazioni ai giovani, ai ragazzi, a quelli che un domani rappresenteranno la nuova società, bisogna parlare di successo parlando di merito. È importantissimo riconoscere una valorizzazione all’impegno e allo studio: questo è il primo punto per attivare un circolo virtuoso che porti alla crescita dell’intero sistema Paese. Dalla nostra ricerca risulta una forte contraddizione tra valore della formazione e retribuzione. I redditi maggiori sono tra coloro che hanno un titolo di studio più basso; età e anzianità contano di più di altri meriti. Questo andrebbe anche bene se ci fosse un’adeguata valorizzazione dei saperi e delle competenze, ma non è così.
Parlando di qualità dell’occupazione, in un mercato con forte incidenza della precarietà, per il 56% dei giovani intervistati la flessibilità è accettabile con diritti e tutele per fasi limitate di vita; il 9,4% la ritiene una opportunità; il 34,6% la respinge come causa di insicurezza, ansia, fatica e stress.
Le nuove generazioni richiedono sicurezza e tranquillità, ma sono disposte a cercare realizzazione, autonomia e soddisfazione nello svolgere il proprio lavoro, con diritti e tutele. L’atteggiamento verso il lavoro dei giovani è prevalentemente quello di assicurarsi un reddito, ma il 40% tra i flessibili pensa che il lavoro possa essere una attività gratificante. Nella conciliazione dei tempi di vita e di lavoro tra gli atipici abbiamo una percentuale molto alta che chiede maggiore libertà di conciliazione dei tempi. Qual è il punto? Riguarda il futuro e le aspettative per il futuro: c’è una profonda incertezza che si traduce in impossibilità di immaginarsi e progettare il futuro.
Al crescere dell’età, l’incertezza cede il posto al pessimismo massiccio, per le condizioni di cui tutti siamo a conoscenza. Oltre a questa incapacità di prefigurarsi il domani, c’è una speranza che dovremo cercare di fornire in termini di tutele e diritti: portare le nuove generazioni a pensare che il lavoro c’è, esiste, ed è un modo significativo per esprimere la propria personalità. Sono in gioco le aspettative e i sogni delle nuove generazioni.
II.
Prima il sindaco ha detto che ciò che contraddistingue le ultime generazioni è il nuovo approccio alla tecnologia. A mio avviso un altro tratto distintivo è la globalizzazione, che ha investito come mai nella storia tutti i giovani di cui stiamo parlando, assieme alla mobilità generalizzata dei rapporti di lavoro. Ne ha parlato Manuel Castells. Riguardo alla globalizzazione, le nostre rilevazioni ci dicono che anche in questo caso una parte dei giovani la vede come rischio e minaccia e una parte la vede come opportunità.
Lucia Ghebreghiorges
 
La nostra mission come rete G2 (seconde generazioni dell’immigrazione) è quella di cercare di raggiungere, come figli di migranti, l’obiettivo di una modifica della cittadinanza italiana. In questo contesto, noi crediamo che la partecipazione giovanile sia molto importante e che questa necessiti di un ascolto da parte di tutti i soggetti nel mondo della scuola e della famiglia: tale partecipazione infatti non può essere favorita senza avere uno spazio in cui potersi esprimere.
Quando ho visto il titolo di questa tavola rotonda mi sono posta una domanda: educare chi? Partendo anche dalla nostra esperienza di rete di seconde generazioni e di lavoro all’interno delle scuole, abbiamo potuto notare quanto l’educazione sul rispetto dei diritti dell’infanzia probabilmente si renda necessaria anche agli adulti. Durante le nostre esperienze all’interno delel scuole, abbiamo trovato grande vivacità, creatività e voglia di esprimersi da parte dei ragazzi, mentre il contesto adulto sembra essere più prevenuto, diffidente rispetto a quello dei giovani e dei bambini. Verrebbe quasi da chiedersi provocatoriamente: chi è questo bambino selvaggio? È il bambino per come viene percepito, oppure è l’adulto che lo vuole percepire selvaggio solo perché non sempre riesce a porsi a livello del bambino? Perché magari non sa ascoltarlo e fa fatica a trovare un punto di contatto?
Come figli d’immigrati, noi ad esempio in Italia non abbiamo il diritto ad essere riconosciuti italiani nonostante origini diverse (continuiamo a venire percepiti come stranieri fino al diciottesimo anno).
Anche qui, saremmo bambini selvaggi?
Può essere il bambino nato in Italia o venuto da un altro Paese essere considerato selvaggio solo perché di origini diverse? Solo perché non gli viene riconosciuto lo status di cittadino già da piccolo, mentre magari è già italiano di fatto? Di vissuto?
Non resterà selvaggio solo per chi non sa guardarlo nella realtà?
Mario Morcellini
 
Oltre la crisi, la scuola – Un tempo, la scuola, la famiglia e il contesto lavorativo rappresentavano i tre contesti chiave della formazione, oggi risulta più faticoso individuare con certezza i suo spazi. Quella moderna è la prima generazione che si trova a fronteggiare più crisi che le generazioni precedenti non hanno mai affrontato contemporaneamente. In realtà la modernità non è altro che l’obbligata necessità di riprogrammare l’esistenza per far fronte alle crisi esterne che mostrano anzitutto la mancanza di un progetto capace di affrontare le criticità connesse, non a caso, al venir meno delle certezze.
Il senso di sfiducia nasce laddove il sistema sociale di protezione non è più in grado di sorreggerci e, nell'attuale crisi delle fondamenta stesse del nostro sistema, è spiegabile che questi fenomeni siano in aumento. È nello spazio dell’esperienza individuale, dell’interazione quotidiana e dell’agire comunicativo che si rintraccia la restaurazione di una fitta rete di legami simbolici di socialità, da qui il forte senso di individualismo o soggettivismo postmoderno alla base dei processi di socializzazione delle nuove generazioni. Gli individui tuttavia, soprattutto i giovani, sembrano chiedere riferimenti forti che sappiano farsi polo attrattivo e aggregante, che sappiano controbilanciare in protagonismo illuminista imperante nel moderno e restituire il senso della condivisione, del dialogo, del confronto con l’alterità, alla base del processo di emancipazione di ogni soggetto. In tal senso, la soluzione alla crisi dell’educazione risiede nella capacità di riconoscere il potere performante delle pratiche comunicative dentro la società e nel credere, senza autoconfinarsi in pessimismi o catastrofismi, nella riappropriazione del ruolo di mediazione culturale della scuola.
Gli individui, soprattutto se giovani, necessitano di esprimere i loro vissuti e rileggerli secondo modalità più adeguate: è necessario offrire uno spazio di ascolto e di confronto ai ragazzi, nel quale possano esprimere i propri disagi all’interno di una relazione autentica, fronteggiando quella tendenza che, nella drammatica precarietà dei tempi moderni, da distruttiva diventa autodistruttiva. Scuola e Università possono fare molto in questa direzione e la comunicazione stessa può assumere, certamente non da sola, una funzione di riscatto sociale; è urgente sviluppare la capacità di avvicinamento ai vissuti dei giovani, alla ricerca di un progetto di vita. La scuola è un diritto inalienabile che ha avuto e conserva il potere di emancipare i soggetti dalla dipendenza rispetto all’ambiente di vita e una cultura vivente è quella che sa andare incontro ai soggetti nei luoghi e nelle occasioni della stimolazione.
Alla scuola e alla formazione è affidata la costruzione di una nuova e più salda mediazione culturale, parallela a quella dei mezzi di comunicazione e capace di integrarsi con essa, raggiungendo il soggetto proprio nella sua disponibilità ad aprirsi.
Certamente il punto di partenza è rappresentato da un nodo da sciogliere: sarebbe una manifestazione di ipocrisia ignorare l’attuale fase di crisi della scuola e della formazione, e la conseguente necessità di individuare strade percorribili per capire più profondamente il posizionamento sociale dell’educazione critica ai media, capire gli indicatori reali della crisi. Bisogna però compiere un passo successivo alle attuali riflessioni: ragionare sulla crisi ma anche proiettarsi “oltre il concetto di crisi”. La crisi della formazione può essere un’occasione di ripensamento, una messa in discussione di tutto quanto sembra ormai condannato all’immobilismo, una nuova era di cambiamento. La scuola deve riuscire a costruire relazioni significative fra le generazioni, non perdendo mai di vista il suo potere di emancipazione dei soggetti. E’ necessario operare una rimessa in discussione dei contenuti e dei valori, partendo proprio da ciò che di positivo possiamo trarre da essa: l’evidenza che se una cultura non riesce a reggere al passaggio delle generazioni, significa che è arrivato il momento di aggiornarne contenuti e valori, ma anche codici espressivi e strategie comunicative.
É ormai noto che la vera spinta innovativa non risiede nei neologismi delle riforme scolastiche, in cui spesso gli insegnanti non si riconoscono, ma nel cuore e nella testa di coloro che vivono e praticano l’educazione giorno per giorno, che la sentono, ne soffrono. La difficoltà, e al tempo stesso la sfida, sarà quella di costruire uno slittamento dei linguaggi che riapra finalmente il ponte della comunicazione, dal momento che, nonostante la precarietà del tempo moderno, c’è speranza: tutto dipende da noi, da come ci posizioniamo nei confronti dei nostri interlocutori, assumendone il punto di vista, senza snobismi né catastrofismi.

L'uomo come essere progettuale e culturale

Un articolo del professore Mario Pollo

 La mappa dei concetti

Questa mappa lungi dal voler rappresentare una compiuta, completa e corretta descrizione della teoria dell’a. vuole semplicemente essere la rappresentazione di alcuni punti di riferimento utili all’orientamento nel territorio da cui muovono per compiere le loro scorribande le varie pratiche che si riferiscono con aggettivazioni varie all’a.

3.1. L’uomo come animale culturale.
Il mondo di una specie vivente è costituito dal suo sistema recettivo, che gli consente di percepire gli stimoli che provengono dal suo ambiente e dal suo sistema reattivo, e che gli permette di reagire a tali stimoli. L’uomo, tra lo stimolo e la reazione a esso, compie delle elaborazioni di tipo simbolico, ovvero interpreta lo stimolo e sceglie la risposta più adeguata a esso, attraverso gli strumenti che gli offrono la sua cultura sociale e la sua esperienza personale, così come è stata rielaborata a livello simbolico. È questo il motivo per cui a volte stimoli apparentemente deboli e insignificanti producono nell’uomo reazioni molto forti, non giustificate da un’analisi biologica della relazione stimolo-risposta: l’uomo reagisce non tanto allo stimolo materiale quanto all’interpretazione simbolica che egli dà di quello stimolo.
Proprio per l’esistenza di questo sistema simbolico il mondo dell’uomo non è un mondo materiale ma un mondo culturale, in cui la stessa realtà fisica, di cui non si vuole certo negare l’esistenza e l’importanza, è sottoposta a un’elaborazione di tipo culturale.
Il fatto che l’uomo abiti un mondo culturale di tipo simbolico rende conto delle differenze, al di là di quelle genetiche, che esistono tra le persone e tra i gruppi umani dotati di differenti culture sociali. Infatti persone che abitano culture sociali differenti e che utilizzano linguaggi diversi, di fatto, abitano mondi differenti. Allo stesso modo persone che vivono esperienze diverse, che apprendono ed elaborano linguaggi differenti per qualità, estensione e sfere di significato, acquisiscono modi diversi di dare senso all’esistenza e, di fatto, abitano mondi parzialmente differenti.
La creazione di questi mondi, sociali e individuali, avviene sin dai primi anni di vita, in quanto il bambino già nel periodo in cui completa il suo organismo attraverso la crescita incorpora gli elementi simbolici che costituiranno il suo mondo: quando egli nasce non è un essere completo, in quanto il suo patrimonio genetico gli offre le possibilità di agire ma non i modi di agire, che dovrà apprendere sia durante le fasi del suo sviluppo sia, anche se in misura minore, nell’intero corso della sua esistenza.

3.2. L’uomo come essere progettuale.
Nietzsche definì l’uomo come l’animale non definito. Con questa definizione egli sottolineava, tra l’altro, il fatto, già segnalato, che l’uomo al momento della nascita è un essere incompiuto che si completa nel corso della sua vita individuale e sociale.
L’uomo non è determinato, infatti, da un codice genetico o da costrizioni ambientali assolutamente vincolanti, come accade per gli animali, ragion per cui al momento della nascita ha di fronte a sé una molteplicità di possibilità di essere. Questo significa che ogni individuo diviene ciò che è in seguito all’ intersezione di più fattori: il suo progetto personale, la cultura sociale, le condizioni dell’ambiente sociale e naturale in cui vive, i processi educativi di cui è protagonista e, naturalmente, il suo patrimonio genetico.
Tra tutti questi fattori la progettualità gioca il ruolo più importante. "L’uomo è un animale non ancora costituito una volta per tutte. Egli dispone delle sue proprie predisposizioni e dati per esistere, assume un comportamento nei suoi propri confronti per necessità vitale, come nessun altro animale fa; egli non tanto vive, quanto, come è mia abitudine dire, dirige la propria vita" (Gehlen, 1983).
Affermare che la progettualità gioca un ruolo fondamentale nella realizzazione dell’essere umano significa anche dire che questi è un essere aperto, a differenza delle altre specie viventi che hanno un ambiente saldamente strutturato dalla loro organizzazione istintuale.
La progettualità nell’uomo riguarda sia la sua formazione come persona sia la costruzione della realtà, ovvero del mondo che abita. Infatti egli producendo se stesso incorpora la cultura, i linguaggi e tutti i sistemi simbolici che mediano il suo rapporto con la realtà.

3.3. La pluralità delle culture e delle lingue come accesso al mondo ‘reale’.
Questa caratteristica dell’uomo che, costruendo se stesso, costruisce contemporaneamente il proprio mondo, potrebbe avere come conseguenza quella della non esistenza, o perlomeno di una relativa inconoscibilità, della realtà esterna all’uomo. Questo pericolo reale è attenuato dall’esistenza nel mondo di una pluralità di lingue e di culture. Infatti l’intersezione dei mondi disegnati dalle varie lingue e culture esistenti nel presente, o che sono esistite nel passato, rende possibile l’individuazione di un mondo comune, che può essere assunto come la traccia più fedele e oggettiva del mondo reale in cui abita l’uomo.
Il mito della Torre di Babele va rovesciato: "La situazione di pluralità delle lingue è originaria, primaria, ma più tardi, sulla sua base, si crea l’aspirazione a un unico linguaggio universale (a un’unica verità finale)" (Lotman, 1993). L’altro – sin dall’origine della storia umana – costituisce il fondamento della possibilità dell’uomo di entrare in rapporto con la realtà esterna e interna.

3.4. La relazionalità e la solitudine del vivente.
La concezione della persona come essere progettuale poggia sul riconoscimento della relazionalità come processo su cui si fonda la sua autocostruzione. Infatti è attraverso le relazioni con le persone, con le istituzioni, con la cultura e la natura che ogni individuo umano disegna i suoi confini individuali e sociali, si autocomprende e comprende, dando una forma intelligibile al mondo che abita, sempre e comunque in bilico tra oggettività e soggettività, tra solitudine e compagnia. L’elemento in grado di spostare questo mondo dalla soggettività solitaria all’oggettività della compagnia è l’esperienza dell’Alterità, ovvero l’esperienza dell’ascolto e della condivisione dell’Altro. L’Alterità, quindi, è il movimento attraverso il quale la persona può sfuggire all’implosione verso quella forma di soggettività distruttiva che è il narcisismo o semplicemente l’egocentrismo, per aprirsi invece a quella soggettività, specchiata dalle soggettività altre, che è alla base sia della costruzione di un Sé maturo che della capacità di una efficace partecipazione solidale alla vita sociale.
Tuttavia la relazionalità non si esaurisce nel rapporto della persona con l’Altro, perché essa richiede – per essere produttiva ai fini della crescita dell’individuo – anche la dimensione della comunicazione intrapersonale. In altre parole richiede alla persona la capacità di accettare, anzi di coltivare, l’esistenza in lei di un nucleo personale che non può essere in alcun modo condiviso, salvo la perdita di se stessi: chi sa veramente entrare in relazione con l’Altro è colui che sa vivere questa irrinunciabile solitudine.

3.5. La cultura e le culture.
La cultura, nell’accezione che è stata introdotta nelle riflessioni immediatamente precedenti, appare come un complesso di regole e di modelli interiorizzato dai membri di una data società che consente a essi di produrre quei comportamenti e di manifestare quei valori, quelle credenze e quello stile di vita che li fanno riconoscere, appunto, come membri di quella data società. In questo senso la cultura può essere pensata come un vero e proprio sistema vivente che segue un suo ciclo vitale (nascita, evoluzione/maturazione, decadimento e morte), può ammalarsi e impazzire o regredire invece di evolvere, vive al suo interno conflitti tra sottosistemi (subculture) differenti. Questo fatto, invece di essere visto come una situazione positiva, specialmente se si tiene in considerazione quanto detto circa la necessità della pluralità delle culture per la comprensione della realtà, è spesso letto in modo negativo e produce atteggiamenti difensivi di negazione dell’altro.
Compito dell’a. è di rendere l’occasione – sia del pluralismo culturale sia della complessità sociale – feconda per una comprensione più ricca del mondo. Questo può avvenire attraverso il recupero del dialogo, inteso come forma che consente la comunicazione nel rispetto della diversità dei comunicanti.

3.6. Comunità locale e protezione sociale: la riscoperta di un ruolo.
In questi ultimi anni si sta assistendo a una riscoperta del valore della comunità locale sia nell’organizzazione della complessità dei sistemi sociali, sia nella rivitalizzazione dei processi formativi e di socializzazione che consentono alle persone una crescita più piena e una partecipazione più attiva e solidale alla vita sociale.
La spinta a questa riscoperta è il prodotto di un insieme complesso di fattori.
Il primo è indubbiamente quello costituito dalla crisi di governabilità dei sistemi sociali complessi: in questo contesto la comunità locale è divenuta il luogo dove le gerarchie dei bisogni e dei valori possono essere stabilite e dove si può scoprire, attraverso il gioco delle differenze intersoggettive, che la realtà ha un volto diverso da quello descritto dal proprio linguaggio e dalla propria cultura.
Il secondo è dato dal peso dell’isolamento relazionale che è prodotto dalla trasformazione delle realtà territoriali di vita in non luoghi (quartieri-dormitorio, diffusione dei megastore, ecc.). Per superare i non luoghi è necessaria un’azione che riproduca un sistema relazionale primario tra le persone che abitano in un dato luogo, che le aiuti a elaborare un’appartenenza di tipo identitario con lo stesso luogo e che le faccia sentire protagoniste della storia che in quel luogo si scrive, è stata scritta e si scriverà.
Il terzo insieme di fattori è determinato dalla crisi del welfare state che ha fatto emergere alla consapevolezza collettiva che lo scandalo della povertà e del dolore, magari sotto forme nuove, continuava a verificarsi anche all’interno delle società industriali. In questa nuova coscienza sociale hanno ripreso vigore quelle attività dettate dalla solidarietà e sottratte alla logica dello scambio economico, che sono etichettate in modo assai generico come volontariato.
Queste tre ragioni sostengono la convinzione che l’ambito privilegiato dell’a. è quello della comunità locale o di un suo qualche sottoinsieme.

3.7. Educabilità.
La concezione dell’uomo come essere progettuale consente di affermare che l’educabilità è un aspetto qualificante della condizione umana: la persona vive continuamente un processo di formazione che può farla evolvere, ma anche ristagnare se non regredire. Tutte le pratiche di a., qualunque sia il loro approccio teorico e il loro metodo, si fondano sulla convinzione dell’educabilità permanente delle persone. L’a. sottolinea il fatto che l’azione educativa può essere estesa alla vita quotidiana delle persone, aiutandole a dotarsi degli strumenti metodologici e concettuali che consentono loro, da un lato, di essere critiche e selettive nei confronti delle influenze che ricevono sia dall’ambiente sia dal loro interno e, dall’altro lato, di agire su se stesse e l’ambiente per modificarli e, quindi, per cambiare le influenze che esercitano sul loro progetto di vita.
Questa azione del rendere la persona nello stesso tempo protagonista attiva e spettatrice critica della scena sociale, oltre che della sua vita interiore, è uno degli elementi forti del processo dell’a. sociale e comunitaria, oltre che di quella educativa.

3.8. Una speranza progettuale.
L’a., sin dal suo sorgere, è sempre stata fedele a quello che con un’espressione di Bloch è definibile come il "principio della speranza", in quanto ha sempre posto nell’orizzonte del suo agire l’utopia, intesa come sogno e come scommessa sul futuro. Possedere un "principio di speranza" richiede la consapevolezza che spesso sono i gesti poveri della vita quotidiana quelli in grado di introdurre nella storia delle persone un cambiamento e una redenzione della loro condizione. Non esistono situazioni umane, individuali o sociali, che possano essere definite come irredimibili e spesso il cambiamento non è generato dalla potenza ma dall’autenticità e dall’amore.
di Mario Pollo